Ogni disoccupato, si sa, è diverso.
C’è chi si rassegna e si chiude in casa; chi non demorde e invia ogni giorno centinaia di curriculum (ometto volutamente il plurale latino perché mi va; se sei un grammar nazi puoi sonoramente andare affanculo); chi si butta in corsi, acquisizione di nuove skills; chi prova ad inventarsi un lavoro abbandonando l’idea del posto fisso e investendo su un progetto personale; chi vive una profonda crisi mistica e comincia a mangiare pizza all’ananas e parte per un lungo viaggio senza meta.
Personalmente ho attraversato ognuna di queste fasi. A volte anche contemporaneamente. Ad esempio, in questo momento, nonostante i tentativi vari, fino ad ora infruttuosi, di trovare un lavoro e/o di inventarmene uno, prevale la fase della rassegnazione. Credo sia un passaggio inevitabile per chi si trova in una situazione come questa.
Il lavoro, in fondo, contribuisce a caratterizzarci come individui. Non dovrebbe essere così, ma lo è. In una società come la nostra, poi, permeata dal senso di colpa e dalla smania di mostrarsi forti, sicuri di sé e vincenti, la disoccupazione fa nascere un profondo senso di vergogna con ricadute sul benessere e sul proprio stile di vita.
“E così tu sei Pinca Pallina…”
“Sì…come sai il mio nome?”
“Te lo si legge in faccia”
“Sei simpatico. Che fai nella vita?”
“Al momento sono disoccupato”
“Ah…“
In quel “Ah” c’è lo specchio in cui il disoccupato ha paura di rivedersi. Non avere un lavoro, per quanto sia una condizione diffusa, tende ad acuire un’auto-percezione negativa che ci regala un profondo senso di inadeguatezza. Ci si sente inutili, svuotati, non meritevoli di alcunché. Figuriamoci se, in uno stato simile, si riesce ad approcciare una sconosciuta esordendo con “e così tu sei Pinca Pallina“. Figuriamoci se esiste veramente una ragazza che si chiama Pinca Pallina.
Appunto.