Oggi è dura.
Ma la disoccupazione mi sta insegnando alcune cose.
Per me, si sta rivelando un periodo di analisi interiore. Sto conoscendo il mio inferno. Non è facile. Ma serve. Serve a trovare una forza in grado di autoalimentarsi, che non dipenda esclusivamente dalla posizione sociale, o dall’avere un lavoro.
Quando ce l’avevo, un lavoro, o comunque quando ero pieno di impegni, mi sentivo pieno di vita. Le mie abilità di essere umano sembravano in costante miglioramento, in ogni ambito. La sensazione di essere padroni della propria vita, di guadagnarsi il pane, di costruire qualcosa, era quasi un doping.
Poi, il buio. Zero lavoro, zero idee, zero alternative, zero energia. E tutto è andato a puttane (sapeeeessi andaaaarci iiiiio [cit.]).
La consapevolezza a cui sono giunto ora è che non posso legare il mio benessere al lavoro. La negatività che sto vivendo, e che a tratti danneggia seriamente la mia vita, non può e non deve essere curata da un lavoro. Sarebbe solo un antidolorifico.
Voglio dire: se domani mi chiama Tizio per assumermi, di colpo starò di nuovo bene? Probabilmente sì, e questo è inaccettabile. Significa che la consistenza del proprio equilibrio psichico è la stessa di un cracker (rigorosamente salato in superficie).
La disoccupazione è una prova cui la vita ci sottopone per renderci più liberi.
Non posso considerarmi un fallito da disoccupato e il giorno dopo sentirmi profondamente realizzato solo perché qualcuno ha reputato interessante il mio curriculum e ha deciso di farmi un contratto. C’è qualcosa di follemente estremo in tutto ciò.
Sono arrivato al punto di credere che in questo momento non è un lavoro ciò di cui ho realmente bisogno. E che, anzi, forse mi farebbe male. Perché mi farebbe credere di stare bene. Ma io devo prima imparare a stare bene a prescindere dalle condizioni esterne, che ci sia il sole o la tempesta.
E l’unico modo per riuscirci è non smettere mai di lottare.