Ho appena saputo di non aver superato le selezioni per entrare in una grande azienda, dopo essere arrivato al penultimo step.
Non è stata una sorpresa: io per primo non ero convinto di essere tagliato per quel posto. Ma di questi tempi sarebbe stato sciocco non provare.
Le selezioni consistevano in una sorta di tour de force di prove da svolgere insieme ad un centinaio di candidati. Il tutto organizzato in pompa magna (prima attrice pornografica della storia, risalente ai romani) dall’azienda in questione, che ci ha tenuto a far apparire tuttobellotuttostraordinariotuttogiusto.
Ho fatto innumerevoli colloqui nella mia vita, andati quasi sempre bene. Questa, però, era la prima volta che mi trovavo in una situazione più simile ad un provino di X-Factor che ad un colloquio di lavoro. Come spesso mi capita di fare, anche in questo caso ho osservato molto, in particolare gli altri candidati.
Si è creata una dinamica piacevole come lo sfregamento di una grattugia sul glande, in cui ognuno cercava di prevaricare l’altro per farsi notare dagli addetti alle risorse umane. Falsi sorrisi, considerazioni forzatamente brillanti, zero empatia. Il tutto condito da qualche sguardo isterico.
In un contesto dove il mors tua vita mea è un accordo che si sottoscrive tacitamente nel momento in cui ci si presenta affettuosamente agli altri candidati, era inevitabile che questa modalità di selezione facesse emergere il peggio dell’interazione umana. Due che si mandano a fanculo, a mio parere, sono su un livello di qualità espressiva superiore rispetto a chi discute con ipocrisia su temi intellettualoidi. Perlomeno sono sinceri.
Ma le selezioni e i colloqui sono sempre stati, e sempre saranno, la bottega dell’ipocrisia. Sono ipocriti i recruiter e siamo ipocriti noi poveracci che veniamo esaminati. Entrambi lo sappiamo, ed entrambi lo accettiamo.
Così, in sede di colloquio siamo fortissimamente motivati ad ottenere quel lavoro che, poi, una volta assunti, odieremo.
Ma tu mi amavi.