In questi giorni la mancanza di un lavoro mi sta provocando un senso di isolamento.
La disoccupazione crea un disagio profondo, serio, penoso. Le conseguenze economiche rappresentano “solo” l’aspetto pratico della questione: non ho un lavoro -> non guadagno -> ho difficoltà a campare.
Ma fuori da questa equazione c’è un universo che non si calcola con i numeri.
Quella del disoccupato è un’etichetta che ti porti costantemente addosso e che ti condiziona pesantemente nelle relazioni con gli altri, i quali diventano uno specchio della propria rinnovata insicurezza.
Una semplice e innocua domanda, che sia posta da un conoscente, da un parente, da un amico, da uno sconosciuto, è in grado di gettare nello sconforto chi, un lavoro, non ce l’ha: “Che hai fatto oggi?“.
Ultimamente, nei rari sprazzi di vitalità che mi distraggono dal pensiero del non-lavoro, mi è capitato di conoscere persone nuove, e di approcciare qualche ragazza. Ma al momento della fatidica domanda, con la sua variante letale “Che fai nella vita?“, puntualmente si fa sentire l’istinto di sotterrarsi e non riemergere più.
Mi passa la voglia di instaurare nuovi legami. Che cosa ho da offrire? Quale futuro? E il fatto che mi stia dannando l’anima e cercando in tutti i modi di trovare un lavoro, dandomi da fare e formandomi continuamente, non cambia la questione: resto pur sempre un disoccupato. E lo sguardo della gente cambia, quello delle ragazze in particolare. Soprattutto se loro, invece, un lavoro ce l’hanno. Può essere anche un lavoro di merda, sottopagato, da sfruttati, ma comunque ce l’hanno e ne vanno persino fieri.
Penso che ci sia un senso di colpa di fondo capace di far sentire i disoccupati così inadeguati. E lo stesso senso di colpa porta tutti noi ad accettare condizioni di lavoro umilianti, addirittura ringraziando.
Ma la visione, tragicamente soggettiva, di un disoccupato, non cambia: tutti fanno gol, mentre io sono sempre in fuorigioco.
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