Sono sempre stato un tipo intenso.
Non lo dico per insinuare umidi pensieri alle fanciulle. Per intenso intendo (giochino di parole niente male) soggetto a vivere gli eventi con viva partecipazione emotiva.
Da fuori, però, non sempre le altre persone se ne accorgono. Mi capita di arrossire, e alcune mie fidanzate in passato mi hanno fatto notare, durante un abbraccio, che il mio cuore rimbombava. Che poi questa non fosse l’unica conseguenza di una variazione della pressione sanguigna in presenza delle suddette, è dettaglio di poco conto.
In ogni caso, non mi piace mostrarmi emotivo. Non mi è mai piaciuto. Ma questa tendenza ad apparire più controllato di quanto non sia non fa altro che alimentare ardimentosi moti interiori che premono per trovare uno sbocco espressivo.
In poche parole: più si cerca di tenersi imbrigliati, più cresce l’impulso di scappare, di liberarsi.
E’ come se la nostra interiorità si espandesse e noi volessimo, al contrario, rimpicciolire la stanza che la contiene. E quando due forze opposte si scontrano succede un casino.
La disoccupazione mi ha fatto venire gli attacchi di panico.
Ok, forse è azzardato attribuirle tale onore. Ma ha senz’altro giocato un ruolo importante. E’ stato uno degli ingredienti.
Erano sensazioni che in maniera più lieve avevo già provato in passato, ma qualche mese fa ho dovuto accostare mentre guidavo per un attacco di panico.
E’ paura di morire, di perdere il controllo: terrore puro.
E’ stata l’occasione per conoscermi meglio. Magari esistono modi più soft per scavarsi dentro, ma evidentemente ognuno ha il suo modo. L’ho colto come un messaggio che mi sono autoinviato: <<AOH! Ricordati chi sei!>>. Che sembra un monito mafioso.
In fondo gli attacchi di panico sono come degli strozzini dell’anima: puoi prendere in prestito degli atteggiamenti e ti puoi concedere deroghe alle tue scadenze emotive, ma poi devi restituire tutta la tua autenticità con gli interessi.
E, se tergiversi, ti viene la gente sotto casa per minacciarti.
Quando meno te lo aspetti.
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