Certo, quando ne vedo uno magari mi scatta il rosicamento. Magari mi parte pure l’automatico: “eh vabbè capirai, quello/a è raccomandato/a“. Ma succede più che altro quando si sta tra stagisti/disperati/sottopagati e quindi, per le classiche e detestabili dinamiche di gruppo, bisogna trovare un nemico, un colpevole per le nostre sventure.
Ma in realtà io non ho niente contro i raccomandati.
Sarò un disoccupato atipico, almeno da questo punto di vista.
E’ però doveroso sottolineare, innanzitutto, che esistono due categorie di raccomandati: quelli onesti e quelli disonesti. E io non ho niente contro i primi, mentre i secondi possono pure crepare.
I raccomandati onesti sono quelli che sfruttano conoscenze e/o parentele per ottenere un lavoro per il quale non esistono criteri di selezione oggettivi.
I raccomandati disonesti sono quelli che sfruttano conoscenze e/o parentele per ottenere un lavoro per il quale esiste un processo di selezione basato su test/concorsi.
Nel primo tipo di lavoro, le differenze tra i vari candidati e l’effettiva adeguatezza di uno o dell’altro sono a discrezione dei recruiter. Praticamente, chi si vende meglio, vince. O, più semplicemente, chi piace di più al/la tizio/a delle risorse umane, vince. E non è detto che a piacere di più sia il più bravo o il più qualificato o quello con il curriculum migliore. Si tratta di lavori per i quali, spesso, si è costretti a inviare la candidatura spontanea, o in cui aprono opportunità una volta ogni morte di papa (che Francesco si gratti pure).
Nel secondo tipo di lavoro, banalmente, chi fa il punteggio migliore, vince. E in questo caso si tratta davvero di una performance. Certo, anche qui non è detto che a posizionarsi meglio in graduatoria sia il più bravo/più competente, anche perché esiste sempre una percentuale non trascurabile di culo che può fare la differenza.
In linea di massima, però, il concetto che sta alla base di questi concorsi è: fate del vostro meglio, scannatevi e, se andate bene, vi prendiamo. In sostanza, dipende da noi: non c’è simpatia o antipatia, bellezza o bruttezza, carisma o flaccidume, che possano catturare o far scappare i recruiter.
Sintetizzando maggiormente: la prima situazione è paragonabile a un provino di X-Factor, la seconda a un test d’ingresso a medicina.
In entrambi i casi la bravura è condizione necessaria ma non sufficiente, ma per motivi diversi. Nel primo caso puoi essere bravo/competente/qualificato ma non piacere abbastanza a coloro che devono decidere; nel secondo caso, può esserci qualcuno più bravo di te, che fa un punteggio migliore del tuo.
Quindi da un lato subentrano elementi che hanno a che fare quasi più con la persona che con le capacità, mentre dall’altro è solo un discorso di sapere/saper fare.
Ora, è chiaro che per favorire un raccomandato in un lavoro del secondo tipo, ed avere la certezza che possa entrare, bisogna che conosca in anticipo le risposte o che ne venga falsificato il risultato. In pratica, per favorire qualcuno in un concorso, è necessario imbrogliare.
Nel primo caso, invece, probabilmente i raccomandati non devono nemmeno sostenere colloqui: vengono direttamente buttati nel posto di lavoro da chi li conosce.
La differenza c’è, ed è enorme: è la stessa che c’è tra uno che vince alla lotteria “solo” per il volume stratosferico del suo culo, e uno che vince alla lotteria perché (oltre ad avere anch’egli un deretano non indifferente conoscendo le persone giuste) gli vengono detti in anticipo i numeri vincenti.
Ma, soprattutto, legalmente il primo non infrange delle regole, il secondo sì.
Fermo restando che, dunque, i raccomandati del secondo tipo dovrebbero passare il resto della loro vita a fare gli addestratori di noccioline con uno stipendio commisurato in base ai risultati atletici delle stesse, per quanto mi riguarda mi sento di assolvere i raccomandati del primo tipo. Cioè, ripeto, ovviamente un po’ rosico. Ma fondamentalmente sticazzi. Sono solo sculati, non sculati E imbroglioni. Tutto sommato, innocenti.
E, soprattutto, noi pensiamo sempre ai “figli di”, ma mettetevi anche nei panni dei genitori dei “figli di”. Se mio figlio vuole fare il mio stesso lavoro, e io ho la possibilità di farlo entrare senza infrangere nessuna regola, che faccio, non lo aiuto, soprattutto oggi che trovare un lavoro è quantomai complicato? Poi, ovviamente, starà a lui dimostrare di essere all’altezza.
E comunque, sceglierei sempre di non essere figlio di nessuno. Il pane che avrò guadagnato, alla fine, forse non sarà di qualità straordinaria. Ma sarà mio.
È una distinzione giusta pero, secondo me, manca una terza forma di raccomandazione che all’estero viene utilizzata e sui cui qui abbiamo ancora molti pregiudizi. La raccomandazione del tipo: sono bravo a fare una cosa e una persona che può essere ex collega, ex capo o anche solo un amico mi mette in contatto con un ‘potenziale datore di lavoro’ che cerca proprio quella competenza. Fantascienza? Forse! E a me, per dovere di cronaca, non è mai successo. Ma ho amici che devono il loro lavoro attuale ad una serie di conoscenze che gli han fatto buona pubblicità. Ed è un lavoro che hanno anche meritato. Solo per dire che a volte la raccomandazione è un sistema positivo e che funziona non solo per ‘i figli di’ ma anche per chi si è creato una buona rete di contatti e ha dimostrato le proprie qualità. Un abbraccio e in bocca al lupo per tutto 🙂
Certo, ma quella non la considero nemmeno una raccomandazione. E’ più una “segnalazione”, e comunque è frutto delle capacità mostrate, quindi un merito.