Ogni disoccupato, a un certo punto, lo pensa.
“Basta, me ne vado all’estero”.
E comincia ad avvertire un senso di piacere, speranza e fiducia che si diffonde in tutto il corpo.
Ma poi la realtà è diversa: non è così semplice.
Per prima cosa, non tutti possono permetterselo: andare all’estero comporta grandi spese soprattutto all’inizio, e se non si hanno dei soldi da parte è molto difficile organizzarsi. Anche perché, per trovare lavoro in un altro paese, bisogna stare lì. E’ necessario, quindi, partire quasi a scatola chiusa, almeno per chi non ha nessun contatto.
C’è anche da dire che l’estero è dipinto in modo esageratamente entusiastico, come è costume dalle nostre parti.
Ma è bene sottolineare che stiamo vivendo una crisi che non è solo italiana: facciamo parte di un sistema, e i nostri problemi esistono a livello globale.
Senza dubbio esistono Paesi che stanno messi molto meglio di noi, ma entrare nei loro meccanismi non è facile a livello burocratico, culturale, economico.
Non esiste l’El Dorado: chi va all’estero deve essere pronto a confrontarsi con grandi difficoltà, tra lingua, assenza di affetti (e affettati), sensazione di smarrimento, scadenze, permessi.
Stare in un altro Paese significa diventare immigrati, con tutte le conseguenze del caso.
La tendenza attuale, poi, vede un affermarsi sempre più diffuso di politiche nazionalistiche: i Paesi che funzionano chiudono le frontiere, fanno di tutto per proteggere il loro benessere da agenti esterni, e danno la precedenza ai lavoratori locali.
Di sicuro espatriare resta un’opzione, a volte una necessità, anche solo per non lasciare nulla di intentato.
Ma bisogna essere consapevoli che il paradiso, sulla Terra, non c’è.
La valigia è sempre pronta.