E’ l’era dell’individualismo: ognuno si fa gli affari propri, l’altro è semplicemente un ostacolo da superare, un concorrente da eliminare. Le relazioni umane vanno a scatafascio, e il risultato è una maratona di corridori diffidenti, depressi e incazzati.
Ma attenzione, non è tutta merda quella che puzza.
Se c’è qualcosa da salvare, in questo trionfo di egoismi che sta rendendo la nostra società un mosaico di follia, è il concetto di potere dell’individuo.
Ma da grandi poteri, si sa, derivano grandi responsabilità. E se invece di inveire contro la gente e guardarla in cagnesco pensassimo a questo potere non come a un’arma per disintegrare gli altri, ma come allo strumento per accrescere il nostro valore (certo, anche in termini di mercato) allora le prospettive potrebbero cambiare.
La speranza per una svolta positiva, sia per la condizione di disoccupati che per la società nel suo insieme, è riposta nel paragonarsi esclusivamente a sé stessi, e nel cercare di apprendere quanto più possibile da questo mondo: <<Cosa so oggi che ieri non sapevo?>>.
La conseguenza di ciò, è un gigantesco vaffanculo a quegli inutili scaldasedie chiamati stage.
Una riga in più sul curriculum, per quanto prestigioso sia il nome inciso sopra, non vale assolutamente nulla se, di fatto, il nostro saper fare e le nostre conoscenze rimangono le stesse.
E allora, meglio mettersi a studiare qualcosa per conto proprio per 6 mesi invece di stare parcheggiati davanti a un computer di una tristissima azienda che cambia stagisti con lo stesso ritmo della carta igienica. E il culo, sempre più flaccido, ce lo mettiamo noi.
Studiamo, applichiamoci, liberiamoci dal mito dello stage e sbattiamo la testa su ciò che vogliamo imparare.
E non solo arriverà un lavoro. Ma noi stessi saremo quel lavoro, perché avremo veramente qualcosa da offrire.
Impara l’arte e mettila da parte.
Che è un po’ come dire: fanculo gli stage, datti al bricolage.